L’etnopsicologia è un campo di studi e di pratica complesso e molteplice, che mira a creare un dialogo tra psicologia e antropologia e a tenere insieme, nelle proprie riflessioni teoriche e nella pratica clinica, le realtà culturali e quelle psichiche.
Non si tratta di una vera e propria disciplina, caratterizzata da un corpus teorico e da un approccio metodologico definiti e manualizzati, quanto piuttosto di un insieme di considerazioni teoriche e dispositivi d’intervento tra loro eterogenei. All’interno di questo insieme, due autori sono particolarmente importanti per la diffusione delle riflessioni etnopsichiatriche[1] a livello internazionale: Georges Devereux e il suo allievo Tobie Nathan.
A livello italiano, invece, l’etnopsichiatria si fonda sulle germinali ricerche di Ernesto De Martino e Giovanni Jervis, Michele Risso e Wolfgang Boker, e sui successivi contributi di Vincenzo Lanternari, Piero Coppo, Salvatore Inglese, Giuseppe Cardamone e Sergio Zorzetto. In questo quadro, farò qui particolare riferimento alle riflessioni di Roberto Beneduce, Simona Taliani e al gruppo di lavoro del Centro Frantz Fanon di Torino (con cui continuo attualmente a collaborare).
L’etnopsicologia mira a tenere insieme le dimensioni culturali e quelle psichiche. Ma a quale cultura e a quale psiche ci stiamo riferendo? Entrambi questi concetti, infatti, hanno interrogato e creato accesi dibattiti all’interno delle discipline che nel tempo hanno cercato di definirne i contorni e le peculiarità. L’uso del termine “psicologico”, inoltre, crea non poche difficoltà quando ci si accosta all’Altro, dal momento che costituisce una rappresentazione della nostra cultura, spesso non condivisa da altre popolazioni. Ad esempio, nel contesto cinese, la dicotomia mente-corpo (e quindi quella soggetto-oggetto) si dissolve nella concezione di un “corpo-persona” (shenti 身体) cosciente, inserito in un reticolo di relazioni sociali e caratterizzato da molteplici processi fisiologici; si dissolve cioè in una rappresentazione che tiene indissolubilmente legati aspetti (che nella nostra cultura “occidentale” pensiamo come) soggettivi ed oggettivi, interni ed esterni.
Una possibile definizione di Cultura.
Provare a definire tale concetto è un’impresa alquanto spinosa, in cui l’antropologia si è cimentata per secoli. Jean e John Comaroff, antropologi dell’università di Harvard, hanno offerto una definizione che coglie la natura dinamica di ogni cultura:
«Noi concepiamo la cultura come lo spazio semantico, il campo di segni e di pratiche, nel quale gli esseri umani si costruiscono e si rappresentano in rapporto agli altri, e in conseguenza di ciò si costruiscono e si rappresentano le loro società e le loro storie […]. Né pura lingua, né semplice parola, la cultura non forma mai un sistema chiuso, totalmente coerente. Al contrario, essa contiene sempre in se stessa dei messaggi, delle immagini, delle azioni polivalenti e potenzialmente contestabili. In breve, si tratta di un insieme storicamente situato e sviluppato di ‘significanti-in-azione’, di significanti il cui valore è insieme materiale e simbolico, sociale ed estetico. Alcuni di essi possono, secondo i momenti, formare la trama di visioni del mondo relativamente esplicite, più o meno integrate e vicine; altri possono essere pesantemente contestati, formare la materia di contro-ideologie, o di ‘sottoculture’; altri possono diventare più o meno instabili, relativamente fluttuanti ed indeterminati nel loro valore e nel loro senso»
(cit. in Beneduce, 2006, p. 16).
Dunque, la cultura come:
a) un insieme “storicamente situato e sviluppato”,
b) disomogeneo al suo interno (al contrario di quanto riportavano artificiosamente i dati delle ricerche etnografiche dei primi del Novecento) , c) formato da “significanti-in-azione”,
c) che hanno effetti e conseguenze sulla vita quotidiana delle persone, e
d) che non hanno solamente un valore simbolico, ma anche concreto, estetico ed inscritto nelle relazioni sociali.
La cultura è dinamica e disomogenea, non costituisce un blocco unico, coerente ed immutato di rappresentazioni che ciascun individuo condivide (o rifiuta) in blocco.
Questo discorso porta a tre conseguenze maggiormente connesse all’orizzonte dell’etnopsicologia (Beneduce, 2007, p. 268):
- La decadenza del concetto tradizionale di “Cultura” e “identità culturale”, e dell’idea secondo cui ciascun individuo possa essere immaginato come naturalmente aderente alla sua cultura d’appartenenza e determinato da questa (o addirittura comprensibile a partire dai tratti caratteristici di quest’ultima). L’assunto oggi largamente condiviso è che il comportamento dell’Altro non può essere spiegato soltanto sulla base della cultura del suo gruppo.
- La presa di distanza dalle nozioni di “etnia” e di “etnicità”.
- Il riconoscimento del valore decisivo che hanno sempre esercitato nella storia umana i processi di ibridazione e contaminazione.
In sintesi, la cultura può essere raffigurata in un'immagine come un patchwork di patchwork (Comaroff J. & J.), come l’azione di cucire insieme rimasugli e scampoli di tessuto, che inizialmente sembrano non avere nulla in comune tra loro.
Etnopsicologia VS Psicologia transculturale
Il termine “etnopsicologia” viene talvolta impropriamente considerato come sinonimo di “psicologia transculturale”. Essi in realtà costituiscono due ambiti culturali ed applicativi differenti.
L’obiettivo della psicologia transculturale è quello di costituire una disciplina comparativa che cerchi, da un lato, di mettere in relazione il comportamento umano con le variabili sociali e culturali e, dall’altro, di verificare la validità universale delle teorie psicologiche. Essa si prefigge di descrivere e comparare quanto scoperto nei laboratori sperimentali della Psicologia con quanto rilevato presso popolazioni di altre culture, non rinunciando quindi alle posizioni epistemologiche occidentali.
L’etnopsicologia, invece, a partire dal tentativo di tenere conto dei diversi modi di esistere come esseri umani presenti nel mondo, mira a costruire una nuova teoria e una nuova pratica clinica che diano dignità alle culture degli Altri. Perciò, assume come suo obiettivo lo studio e l’intervento sul modo di articolare le realtà psichiche e le realtà culturali (Zempléni, cit. in Beneduce, 2007), un processo che le è accessibile solamente nelle sue forme transizionali. Per tale motivo, si può sostenere che l’etnopsicologia abbia per oggetto le situazioni di cambiamento psicoculturale, «l’angoscia e le incertezze che spesso le accompagnano, la “divisione culturale” […] più che la mera “differenza culturale”» (Beneduce 2007, p. 19). Per potervisi accostare efficacemente, essa deve innanzitutto compiere un quotidiano e incessante lavoro di decentramento del proprio punto di vista culturalmente informato.
Di che cosa si occupa l’etnopsicologia (della migrazione)?
L’etnopsichiatria, soprattutto quella di Tobie Nathan e del Centre Devereux a Parigi, utilizza la “cultura come cura”, come leva strategica per far emergere ombre e conflitti dimenticati o diventati propriamente innominabili. Questo è certamente un passaggio importante, benché occorra essere consapevoli che nella Cultura non si può trovare la risposta alla totalità dei problemi dei pazienti immigrati, né tanto meno reperire solo in essa il passaggio verso una condizione di autenticità. Piuttosto, come Beneduce (2007) e l’esperienza del Centro Fanon hanno evidenziato, la clinica della migrazione deve sistematicamente prendere in considerazione la questione dell’ambivalenza.
L’oggetto e la leva terapeutica della clinica etnopsicologica con pazienti immigrati non è tanto la differenza culturale, quanto la divisione culturale interna del soggetto (una divisione senza dubbio universale).
«Il paziente straniero non va dallo psichiatra o dallo psicoterapeuta per essere rinviato nel suo ghetto culturale [… per essere, quindi, ricondotto solamente alle spiegazioni “tradizionali” del suo malessere]. Egli chiede prima di tutto di comprendere la sua profonda ambivalenza di fronte alle vecchie credenze e alle tradizioni del suo paese, che gli servono da punti di repere per la propria identità e che la vita di individuo, come la sua cultura attuale, lo spingono a rinnegare» (Zempléni, cit. in Beneduce, 2007, p. 277).
Quindi, una delle funzioni fondamentali dell’etnopsichiatria è quella di prendere in carico, quindi riconoscere e legittimare, questa ambiguità esistenziale (tra vecchie credenze, tradizioni del suo paese e la sua vita e cultura attuale nel paese ospite) del paziente immigrato.
Come interviene l’etnopsicologia?
Uno strumento in particolare caratterizza l’intervento etnopsicologico: l’utilizzo del mediatore etnoclinico. La figura del mediatore (o mediatrice) culturale svolge differenti funzioni: dalle più ovvie funzioni di traduzione e di interpretazione (mediazione linguistica), a quella di facilitatore della relazione terapeutica e dell’accesso ai servizi, sino ad esercitare una esplicita funzione di advocacy, tanto nei confronti del singolo immigrato quanto della sua comunità di appartenenza (Beneduce, 2004).
Il mediatore etnoclinico rende inoltre possibile lo svolgersi di un processo fondamentale, che costituisce la cifra del dispositivo di mediazione in ambito clinico: il riconoscimento della Differenza (Taliani, Vacchiano, 2006). Tale funzione trascende il piano linguistico-verbale e si colloca specialmente su quello implicito e relazionale. È la presenza stessa del mediatore che permette che un’alterità e un’identità possibile siano istituite, riconosciute e condivise, cioè che la Differenza del paziente sia riconosciuta come ‘data’, cioè come pensabile e dicibile.
In questo senso, il mediatore etnoclinico non fornisce delle risposte (né al paziente né al collega), ma permette al paziente di formulare meglio le sue domande e al collega di ascoltare con più efficacia i nodi attorno a cui si coagula la sofferenza dell’Altro, la sua richiesta di aiuto. Si apre allora uno spazio di ascolto ed incontro, dove potersi incontrare e le domande finalmente essere formulate.
L'intervento etnopsicologico mira dunque ad instaurare un percorso di co-costruzione di significati per gli eventi che la persona vive o ha vissuto e, allo stesso tempo, un percorso di accompagnamento nella ricerca di un territorio culturale nel quale ella si possa situare. A tal fine, dev'essere capace di stare nelle congiunture (ivi, p. 121), aprendo uno spazio di negoziazione tra diversi registri: lo psicologico e il culturale, il sociale e l'individuale; il politico, il religioso e il terapeutico.
Note
[1] In questa sezione abbiamo scelto di non fare distinzione tra etnopsicologia, etnopsichiatria ed etnopsicoanalisi, dal momento che hanno tutte come interesse comune la questione della duplice alterità: quella culturale e quella psicologica-psicopatologica. Utilizzeremo questi termini come sinonimi.
Bibliografia
Beneduce R. (2004). Frontiere dell’identità e della memoria. Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo. Franco Angeli, Milano.
Beneduce R. (2006). “Tradurre corpi”, prefazione a Taliani S., Vacchiano F., Altri corpi. Antropologia ed etnopsicologia della migrazione. Edizioni Unicopli, Milano, pp. 13-42.
Beneduce R. (2007). Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra Storia, dominio e cultura. Carocci Editore, Roma.
Studi Culturali, http://www.studiculturali.it/dizionario/lemmi/etnopsicologia.html
Taliani S., Vacchiano F. (2006). Altri corpi. Antropologia ed etnopsicologia della migrazione. Edizioni Unicopoli, Milano.